A raccontarci della vita dello scultore Italiano Ferdinando Vichi riportiamo l'articolo dello scrittore Italiano Marco Vichi, il quale, a sua volta, fa riferimento ad un articolo del giornale "Il Telegrafo", pubblicato il 2 novembre 1932.
Nel 1964, la famiglia Vichi donò all'Archivio Fotografico Toscano di Prato 786 lastre fotografiche realizzate dallo scultore fiorentino Ferdinando Vichi.
Ferdinando Vichi - Scultore e Fotografo
- AFT -Rivista di Storia e Fotografia, N°: 10, Anno: 1989
Venne così creato il Fondo Vichi, e quasi un intero numero della rivista dell'Archivio Fotografico Toscano di Prato - AFT, n°10 del giugno 1989, venne dedicata a questa donazione ed alla pubblicazione di diverse fotografie dello Ferdinando Vichi.
Per l'occasione, il bisnipote dello scultore, lo scrittore Marco Vichi scrisse l'articolo che portiamo fedelmente, come unica (oserei dire) testimonianza della vita dello Ferdinando Vichi.
Su "Il Telegrafo" del 2 novembre 1932 leggiamo:
"Riassumere in brevi tratti la vita di un artista quale Ferdinando Vichi è difficile, tanto dovremmo dire di lui che - se fosse stato avido di onori e denaro, quanto è innamorato della propria arte e grande in essa, anziché schivo e quasi ritroso dinanzi ogni forma di pubblicità - avrebbe riempito del proprio nome i fogli dei giornali e delle gazzette sui quali trionfano, oggi in genere, i vessilliferi del brutto e le rane alto-parlanti.
Ma se, come ogni anima di artista, egli vive tutto raccolto nel proprio lavoro, non è detto per questo che la critica spassionata e sincera non ponga in luce chi più ne è degno. E quindi con un senso di intima soddisfazione che scriviamo queste note su uno scultore che per vero valore è fra i più grandi dell'epoca nostra e -specialmente come ritrattista- non secondo a nessuno".
Ferdinando Vichi nasce nel 1875 a Firenze, in una famiglia nobile.
Nei primi anni dell'Ottocento suo nonno fondava le Gallerie Vichi, divenute presto famose -come si legge nello stesso articolo- soprattutto all'estero, e che lo stesso Ferdinando dirigerà in età adulta (una delle sedi delle Gallerie Vichi fu la palazzina liberty di Via Borgo Ognissanti - altre due erano in via Tornabuoni e sul Lungarno Vespucci).
Fin dall'infanzia appassionato d'arte, egli entrerà poi all'Accademia di Belle Arti di Firenze sotto la guida di Rivalta e Zocchi, dove vince numerosi premi.
Ancora molto giovane espone al Salon di Parigi una sua opera, La bagnante, che viene premiata e subito venduta. Successivamente lavora per la Germania, la Francia, l'Inghilterra, le due Americhe e l'India.
La critica internazionale parla del giovane Vichi - non ancora ventenne - "con giudizi oltremodo lusinghieri".
Nel concorso per il ritratto di Re Umberto per la Camera di Commercio di Venezia, fu scelto insieme a due altri su sessanta concorrenti, ma in fase finale il concorso fu abolito "per l'artistica ragione che si voleva affidare l'esecuzione del busto ad un veneto".
Molti sono i ritratti di personaggi importanti da lui realizzati su commissione, e tra questi citiamo i tre presidenti americani Mac Kinley, Roosevelt e Taft, e la regina di Baroda. Realizza poi numerosi monumenti ai caduti in molte cittadine italiane; il monumento al senatore Donato Marelli; un gran numero di sepolcrali in Inghilterra, in Svizzera e in America (tra i più notevoli quelli per le tombe delle famiglie Bally, Phillips, Rawleigh).
Ottiene il gran premio e medaglia d'oro in varie esposizioni italiane (tra cui quelle di Venezia e Livorno). Nel 1907, all'età di trent'anni, viene insignito del titolo di Cavaliere del Regno.
Lavora poi ai busti del Maresciallo Cadorna e di Mussolini.
Quest'ultimo ritratto, raffigurante il duce in semplice tunica romana, è osannato dal critico de "Il Telegrafo" - già sopra menzionato - e vien definito "quanto di più bello si sia fino ad oggi eseguito per eternare l'effigie dell'Uomo sacro per i destini d'Italia (...) senza manierismi di stile (...) con michelangiolesca sobrietà (...) e veramente nessun altro busto come questo del Vichi sarebbe degno di essere conosciuto e riprodotto, la dove l'immagine del Duce ha da essere ricordo, incitamento, comando". (Non aggiungeremo altro, né sul busto del duce né sull'apologeta.
Diremo soltanto che questo bronzo, insieme al gesso, è purtroppo andato distrutto in un periodo assai poco propenso a distinguere la politica dall'arte).
Degli altri suoi numerosissimi lavori la famiglia Vichi possiede attualmente un gran numero di gessi (anche in bassorilievo) e qualche pezzo in bronzo: i soggetti, le pose, la stessa realizzazione (attenta a riprodurre fedelmente la realtà) sono da inquadrarsi in una cultura ottocentesca, certamente non innovatrice (si pensi a scultori suoi contemporanei o addirittura precedenti quali Medardo Rosso, Boccioni, Rodin ed altri ancora, che già avevano spezzato - ognuno a modo proprio - la regola delle figurazioni quattrocentesche); ma ugualmente si nota nella sua scultura un'abilità appassionata e una forza armonizzante che domina le forme, sia nei busti, sia nei minuscoli bozzetti in creta.
Quando il soggetto è unico (un busto, una figura intera) l'armonia la troviamo nella posa stessa; altrimenti, quando la figura umana centrale è accostata ad altro (un animale, un semplice tavolo) Ferdinando trova sempre un equilibrio, una reciprocità essenziale tra gli elementi raffigurati che, unendosi, divengono una nuova unità, esteticamente inscindibile.
Legato all'arte figurativa dei Macchiaioli, lo scultore Vichi non tende quasi mai a rappresentare occasioni simboliche o esemplari, ma piuttosto vuol cogliere i momenti intimi e quotidiani, cercando spesso di fermare il movimento delle sue figure in una posa pensierosa o riflessiva, nell'occasione di un attimo solitario - un'occasione quasi sempre consueta, quasi mai retorica.
Nel cimitero di S. Miniato al Monte, alto su Firenze, vi sono tombe della famiglia Vichi con busti in bronzo realizzati da Ferdinando, compresi quelli di suo padre Orlando e di una cuginetta morta all'età di sei anni di spagnola.
La fotografia, per Ferdinando, fu inizialmente un'esigenza di lavoro. Aveva bisogno di immagini di modelle, di cavalli e altro, che spesso fotografava egli stesso; fin dall'America arrivavano richieste di ritratti in bronzo accompagnate da una o più fotografie. Successivamente divenne un interesse parallelo, forse dilettantesco, ma certamente per lui appassionante.
Oltre ai gruppi di famiglia, assai numerosi, ci rimangono di lui non pochi "ritratti" di Firenze. Colpiscono per quel modo di bloccare l'evento casuale che denota subito un'intenzione, un taglio preciso. L'obiettivo diventa l'occhio nascosto di una spia, o meglio "un'occhiata veloce", poi passa oltre: non vuole influenzare, intervenire, preparare l'evento allo scatto.
Inosservato, vuoi fermare quel certo momento e portarlo via, custodirlo.
E quel certo momento non è scelto perché speciale, perché significativo in sé, ma piuttosto per il contrario: è un momento comune cui viene data la possibilità di divenire speciale - bloccato in un'immagine -proprio per la sua neutralità. E ancora, quell'istante appare davvero come un frammento reale di un movimento reale - non adulterato, falsato, ma invece indipendente, inconsapevole d'essere spiato e desiderato.
A volte - così abilmente è rubato al mondo l'attimo "normale" - si ha come l'impressione che l'immagine si sia prodotta da sola sulla lastra, senza che dietro la macchina vi fosse alcuna volontà, nessun occhio a scegliere il posto e il momento - o magari senza la presenza della stessa macchina: cosi, a distanza, per via magica.
Per inquadrare più da vicino la figura di Ferdinando Vichi devo però oltrepassare questo riassunto biografico e attingere dall'aneddotica famigliare tramandata, una sorta di cassapanca mnemonica impolverata ma autentica.
Ferdinando aveva fama di uomo arguto, fornito di parola pronta e pungente, ma generoso e semplice, mai astioso.
Amava gli scherzi, ne organizzava di diabolici.
Sapeva coinvolgere decine di persone, una folla intera, in un'occasione ridicola preparata con cura. Poi si gustava i risultati sogghignando silenzioso dentro il torace, tradito all'esterno soltanto dall'ondeggiare ritmico del suo addome smisurato.
In un altro articolo - scritto per il trigesimo della sua morte - leggo: "(...) dal suo labbro fiorivano i motti e i frizzi come dalle sue mani uscivano le figure soavi di fanciulle, di putti, di tenere madri avvincenti i figli al seno, di teneri giovinetti". Ferdinando portava sempre con sé un lapis minuscolo (che gli spariva tra le dita), una gomma altrettanto piccola, un blocco.
Ovunque fosse lo si vedeva disegnare: ritratti, ma anche caricature - una delle quali gli costò un'amicizia.
S'abbandonò anche a qualche scultura caricaturale, dove seppe liberarsi, forse, a interpretazioni che però non volle mai tentare seriamente nella sua professione ufficiale.
Inoltre, nonostante tutto quel suo lavorare, seppe trovare il tempo - e ciò mi piace - di ritrarre i suoi servitori, sempre uomini di mente fin troppo semplice e affezionati all'artista, buoni fino all'idiozia - e il gesso di uno di quei volti ancora esiste.
"C'era in lui il mecenate" -continua lo scritto- "e a tutti donò: furono talvolta aiuti artistici, consigli ai giovani che numerosi frequentavano il suo studio e lo volevano maestro; in altre occasioni furono sostegni materiali anche considerevoli che largì agli amici".
Qua e là seguono frasi laudative, come: "(...) uno di quegli artisti che concepivano l'arte per l'arte, che la concepivano come vero godimento dello spirito (...) artista di buona razza toscana non conobbe livore, acredine, sdegno (...) sorrisi, parole buone e serene che suscitavano simpatia in chi l'avvicinava (...) fu un sognatore di giustizia e fratellanza". Al di là della retorica (che si può comodamente, diciamo così, espungere) resta senz'altro il ritratto di un individuo piacevole, di notevole personalità.
In una delle sue ville - quella di Settignano, ancora oggi solida, affacciata su Firenze - si riunivano ogni sabato numerosi parenti: si trascorreva il pomeriggio nel parco, si organizzavano giochi, si suonava il piano e si cantava; poi le signore si appartavano, cominciavano i pettegolezzi e un gran parlare d'abiti e di cappelli - i signori discutevano le novità del tempo, polemizzavano sulla politica, fumavano.
E' in questa villa di Settignano che sono state scattate il maggior numero di fotografie, sia all'aperto che in interno.
Tra gli invitati, spesso, potevano comparire le letterarie e pur vere sorelle Materassi, che abitavano a Ponte a Mensola, a un tiro di fucile dai Vichi - e forse anche loro, in qualche occasione, s'irrigidirono sotto un gran cappello bianco aspettando lo scatto della macchina di Ferdinando.
Un altro amico passava dalla villa dei Vichi: il padre di Primo Conti.
Ferdinando - non cacciatore -gli prestava spesso la carabina di suo padre Orlando per andare a caccia.
II figlio di Ferdinando, Eugenio (pittore, ma soprattutto esperto d'arte) e Primo Conti proseguirono l'amicizia dei padri.
Ma torniamo a Ferdinando.
Uomo dal fisico enorme (in gioventù si divertiva a gareggiare col suo amico e famoso campione mondiale imbattuto di lotta greco-romana, Giovanni Raicevich, di cui ritrasse un braccio coi muscoli contratti) gli capitò di trovarsi a osservare quattro facchini che discutevano alacremente sul sistema migliore di trasportare il blocco di marmo di Carrara, da lui stesso ordinato, fino al suo studio di Piazza Cavour (oggi Piazza della Libertà). I quattro stavano cercando di organizzarsi per far salire al parallelepipedo una grande scala, ma nessuno dava inizio all'impresa.
- "Giusto voi, maestro" disse uno dei facchini vedendo apparire Ferdinando "Diteci: voi come fareste?"
- "Così" fece lui, e affidata la giacca a uno dei quattro e rimboccatosi le maniche trasportò con le sue mani il marmo fino a destinazione, facendolo ondeggiare e salire gradino dopo gradino.
- "Grazie maestro" dissero i facchini "Grazie tante!"
- "E di che?" si meravigliò lui - e col solito sistema riportò il blocco ai piedi della scalinata, riprese la giacca e se ne andò.
Ma l'episodio che più lo lega alla mia memoria è un suo famoso "affare", con cui barattò un famoso albergo di Firenze con una magnifica tela del tardo Cinquecento (attribuita al Pordenone) che ancora appartiene alla famiglia...
"Mi son levato un gran peso" disse alla moglie, soddisfatto.
Aggirandomi tra i gironi infernali non saprei decidermi dove andarlo a cercare, ma certo sarei tentato di spiare dietro le spalle del gran vermo Cerbero.
Fu certo un buongustaio, senza rimpianti. Al buon mangiare sacrificò la salute, consapevolmente. Collo taurino, mani enormi, col cuore stretto nel grasso continuava i suoi pellegrinaggi tra dolci e pietanze.
Ai medici che gli prospettavano l'odioso bivio tra l'astinenza e la morte rispondeva che adesso non poteva pensarci, perché il giorno dopo era invitato a una cena.
Nel giorno di Natale del 1941, d'età di sessantasei anni, il medico di famiglia lo visitò a letto, e per l'ennesima volta si raccomandò che lo scultore s'incamminasse sulla strada della morigeratezza gastronomica. Solo una vita sana, disse, può salvarlo.
"Perché vivere soffrendo?" chiese Ferdinando. Poi, mentre il medico usciva dalla villa dello scultore (ancora ridendo per una barzelletta dell'impenitente) fu richiamato indietro con urgenza. Il paziente era morto. Il suo cuore non aveva saputo più districarsi da quei reticolati di grasso.
Ho scritto con piacere questo succinto ritratto di Ferdinando Vichi, perché sempre, pur non avendolo mai conosciuto di persona, la sua figura mi ha suscitato simpatia.