Dino Buzzati | Uomo in una notte di neve, 1926 |
Lei entrò pallida, in affanno, con l'espressione di una bestiola inseguita.
"Dio mio che faccia hai" fece la signora Ermelina, e le diede un affettuoso schiaffetto. "Su, su. Che cosa ti è capitato?"
"Ho fatto una corsa, una corsa" rispose Laide senza neppure salutare.
Antonio. "Al teatro c'era prova, non mi lasciavano andare".
"Ma se vai a Roma per una settimana?" disse Antonio "Che cosa importava più la prova?"
"Insomma al teatro sono così. Che ora è?"
"Le una e mezza oramai".
"Su, su, andate, non perdete tempo" esortò la signora Ermelina ridendo.
Dorigo, per agevolare la Laide, si spogliò in un lampo. Lei no, invece, stranamente sembrava non avere fretta.
"Vengo subito" disse e si ritirò nel bagno. Lui continuava a guardare l'orologio. Sentì a lungo scrosciare l'acqua di là. Ricomparve alle una e trentasette.
"Dimmi una cosa" le chiese subito appena la ebbe fra le braccia "perché l'altro giorno alla prova hai fatto finta di non riconoscermi?"
"Scusami sai" fece lei pronta "ma io preferisco evitare. Tu sapessi come là dentro sono tutte pettegole e maligne. Se ti salutavo, poi subito cominciavano a domandarmi dove ti avevo conosciuto e per come e per cosa".
"Ma almeno un sorriso, un segno!"
"No no, io in queste cose sono molto precisa".
"Però io adesso so come ti chiami".
"Oh bella, Laide, mi chiamo".
"No, il cognome".
"Sai il mio cognome?"
"Sì".
Lei sottrasse la bocca alla sua bocca:
"E allora, come mi chiamo?"
"Mazza, ti chiami".
Allora lei, stizzosa, si mise a pestare i pugni sul cuscino: "Che rabbia, che rabbia! Te l'ho detto che non mi piace far sapere certe cose. E come l'hai saputo?"
"Niente. C'era una che si è avvicinata e ti ha detto: senti, Mazza".
"Be', mi dispiace".
"Perché? Non ti fidi di me?"
"Cosa c'entra? Ma è sempre meglio..."
Che bella bocca aveva, però, piccola, viva, pneumatica.
Lui cercò di agevolarla, ci teneva a mostrarsi superiore, un vero gentleman: alle due meno diciotto tutto era già finito. Mica che questo si potesse dire far l'amore. Ma c'era il treno da prendere.
"E le valige?"
"Sono giù in portineria".
"Io sono pronto. E tu?" "Solo un colpo di rossetto".
Uscirono insieme dalla stanza.
"Dio Dio che faccia hai oggi, non sembri neanche più tu" disse ancora la signora Ermelina.
Lei: "Sono proprio tanto brutta?".
"Macché, solo che devi esserti strapazzata".
"Lo so. A teatro non ce la faccio più. Del resto ho deciso di piantarla. Non è più come una volta. Adesso c'è un ambiente spaventoso".
Lui fu pregato di aspettare fuori sul pianerottolo. Le due donne dovevano fare i conti, evidentemente. Sentì delle voci. Poco dopo lei comparve.
Le valige erano due, abbastanza belle. La più grande di pelle bianca e nera si faceva fatica a sollevarla da terra.
Con quel peso lui si avviò alla macchina, poco lontana. Erano le due meno cinque. E il sole splendeva su Milano.
"Perché dicevi che è un ambiente spaventoso?" chiese lui, gli sembrava strano il commento da parte di una ragazza come lei.
"Ma sì, ma sì" fece lei irritata "ti prego, non farmi parlare. Ne ho sopra i capelli. Tanto, ho deciso di venir via".
Erano arrivati alla seicento di Antonio. Caricarono le valige.
"E quando ti decidi" fece lei "a cambiare questa trappola?"
"Lascia perdere. Per girare in città è ancora la più comoda".
"Io sono abituata a qualcosa di meglio, sai?"
"Cosa? Jaguar, Mercedes, Rolls Royce?"
"Be', non prendertela, scherzavo".
Erano usciti da via Velasca, 25, una grande casa, la signora Ermelina, stava al sesto piano.
Da via Velasca, 25, una nuova casa, avrà avuto due tre anni, Dorigo portò le valige fino in piazza Missori dove aveva lasciato la macchina. Al sesto piano c'era un lungo pianerottolo, nella penombra, e in fondo c'era una porta, qui stava la signora Ermelina.
Dorigo sistemò le due valige nei sedili posteriori; venne il custode del posteggio, era un uomo cordiale che assomigliava al ministro Pella, lui gli diede cento lire di mancia. Laide sedendosi, le gonne si ritirarono, comparvero le ginocchia, portava delle calze colore del fumo, le ginocchia e qualcosa di più, un presentimento.
Nella casa della signora Ermelina la camera da letto era pulita ma nuda, il letto era grande, non c'erano Crocefissi né Madonne, solo un orribile quadro oleografico con una marina.
Lei disse fammi il piacere dovresti passare da via Larga devo passare dal mio calzolaio a ritirare un paio di scarpe.
Lui mise in moto, c'era un traffico della malora, si procedeva lentissimi lui guardò l'orologio erano già le due.
Lui guardava Laide al suo fianco, era la prima volta che veniva in macchina con lui. Ma lei non si volse.
Lui pensava che Laide lo avrebbe guardato, mica che si illudesse di essere bello ma in fondo un uomo come lui avrebbe dovuto farle piacere, per la vanità se non altro, sentirsi protetta da una persona così per bene, lei in fondo non doveva essere poi tanto abituata a persona così per bene, lei senza dubbio una persona così per bene non l'aveva mai incontrata o invece sì ne aveva senza dubbio incontrate e c'era andata in letto e li aveva baciati con tutte le altre pratiche carnali attinenti ma nessuna, di queste persone, l'aveva certo trattata come lui, tutte l'avevano trattata come una maschietta da ventimila, con tutti i complimenti del caso dietro a cui c'era un sommo disprezzo - così pensava - mentre lui non faceva differenza fra per bene e non per bene, lui la trattava come una signora, una principessa non l'avrebbe trattata meglio, non avrebbe avuto tanti riguardi. Un sorriso, uno sguardo di riconoscenza gli sembravano quasi dovuti.
Ma lei non lo guardava, benché lui continuamente si voltasse a guardarla. Lei guardava dinanzi, nella strada, con un'espressione tesa e quasi ansiosa, non era più la ragazzina arrogante e sicura di sé. Non aveva quasi rossetto, non era più bella, era una bestiola spaurita, come quando era comparsa dalla signora Ermelina.
"Ecco qua. Puoi fermare qua?"
"Fa' presto, però, senò mi prendo una multa".
Non era più la ragazzetta spavalda e orgogliosa, era una creatura inseguita che cercava scampo. Scese dalla macchina ed entrò in un piccolo vecchio portone. Lui accese una sigaretta. Erano già le due e cinque.
Ricomparve poco dopo con in mano un sacchetto di cellofan che conteneva due scarpe.
"Sono nuove?"
"No, no, le ho portate a rifare i tacchi".
Di corsa verso la stazione. E lui continuava a guardarla, non ne poteva fare a meno. Lei no. Lei guardava davanti, il naso non era più
capriccioso e petulante, era diventato la cosa più importante della faccia, sembrava che fiutasse un pericolo.
Non parlava, era chiusa in sé, un pensiero impaziente e preoccupante la teneva, guardava davanti a sé, sulla strada, ma non era impazienza, non era paura di perdere il treno, era qualche cosa di più. Come se tutto, intorno a lei, fosse nemico, e lei dovesse guardarsi. Come se ciò che l'aspettava, fra cinque minuti, fra un'ora, domani, fosse una minaccia. Come se il viaggio che stava per fare non fosse una gioia e un riposo bensì una "corvée" ingrata, a cui doveva assoggettarsi.
Non era bella, era pallida, aveva un segreto e fastidioso pensiero.
Lui continuava a guardarla, lei non rispondeva.
Ma più lei guardava intorno, quasi guatando, più diventava lontana, irraggiungibile, personaggio di un mondo a lui vietato.
E sempre più Dorigo la desiderava benché non fosse sua, benché fosse di altri uomini ignoti, di moltissimi altri uomini ch'egli odiava sforzandosi di immaginarli: alti, disinvolti, coi baffetti, al volante di macchine potenti, che la trattavano come cosa loro, come una delle tantissime a loro completa disposizione, da non pensarci su nemmeno, al momento adatto della sera, dopo il "night", un po' sbronzi, menarla in camera e neppure guardarla mentre si spogliava, come i satrapi antichi, loro di là nel bagno a orinare e sciacquarsi le gengive con l'Odol, sicuri di ritrovarla in letto, completamente nuda, e se era il caso, poi, se gli veniva la voglia, strizzarle un poco le tettine, e nel migliore dei casi piegarsi, divaricandole le cosce con le braccia, e affondare il muso ti con Ferrari e "yacht" a Cannes, ma all'indomani mattina, al golf di Monza, neppure ne avrebbero accennato, una puttanella qualunque come tante da non
farci nessun caso, né più né meno di un beveraggio preso al bar paesano dove ci si ferma durante il lungo viaggio in macchina scoperta sotto al sole, unicamente per calmare la sete e poi via quel bar sarà per sempre dimenticato anche la barista bruna mica male che a un certo punto, cercando la bottiglia del selz, si è chinata in avanti e allora, nell'ampia scollatura dell'abito trasandato ma estivo, si sono intraviste, anzi si sono viste benissimo le due tonde sode tette da contadina e per un istante si è pensato come sarebbe bello fermarsi qui e nella notte calda punteggiata di zanzare, mentre fuori di tanto in tanto passano i camion col loro mastodontico frastuono, rovesciarla sul letto e denudarla, scoprendone le muscolose membra brune, così naturali, con quel buon odore di sudore e di sapone di bucato, lei abbandonata al maschio ricco e forestiero, con l'ingenua vanità della campagnola che crede forse di vivere così un pezzo del romanzo a fumetti letto due ore prima mentre il cavalier Frazzi e il Viscardoni giocavano a briscola nell'angolo là in fondo e forse lui dopo avermi goduta capirà che razza di manza sono e mi porterà con la sua meravigliosa macchina a Milano e mi comprerà una casa e mi porterà a teatro e io gli farò vedere con la mia corporatura a quelle squinzie là dal petto floscio, le farò sbavare dall'invidia.
Ma fuori nella macchina c'è la Claudia che aspetta, quella sofisticata che ha finito per scocciarmi l'anima ma non si può piantarla così, per le convenzioni fortissime borghesi che impongono un contegno e allora lui caccia via il desiderio della servente, non la saluta nemmeno, esce nel sole, risale in macchina e via per l'autostrada, mentre lei, la Claudia, sonnecchia domandando ogni tanto, lentamente: "Dove siamo?".
La Laide, quella creatura umana seduta di fianco a lui nella piccola automobile, con tutti i suoi ricordi di bambina, sogni, palpiti, ansie scolastiche, desideri di giocattoli e di abiti belli, giorni di festa cominciati con bellissime speranze e finiti con la delusione della sera nella cameretta squallida senza finestre, con tutto lo sterminato mondo di ricordi, realtà, speranze, le scarpette fruste, la sottoveste fatta in casa, l'illusione di essere speciale, destinata all'attenzione dei signori, capace di farli innamorare e invece niente, questa creatura meravigliosa esposta alla domanda e offerta del mercato, la ruffiana che dice: avrei una bambina come piace a lei, bruna, sottile, libidinosa sa? e lui che dice speriamo che non sia come l'ultima volta, l'ultima volta è stata una ciafeca non era neanche capace di baciare.
E allora la Laide viene fatta entrare e lui, senza neppure domandarle il nome se la fa sedere sulle ginocchia e comincia a palparla e poi le apre sovrappensiero la chiusura automatica lungo la schiena e lei si lascia fare e lui le sfila l'abito e slaccia il fermaglio del reggipetto sulla schiena e poi con le dita le stuzzica i piccoli seni scoperti, verginali, come un giochetto risaputo e intanto con l'altra mano le cerca l'inguine per provarne le reazioni no no, basta! era assurdo era pazzesco che cosa in fondo gliene fregava di cosa facesse quella ragazzina dove andasse e con chi? era una delle tante non aveva mica intenzione un uomo come lui alla sua età di incastrarsi con una simile ci mancava altro che andasse pure a farsi fottere da chi voleva e da quanti voleva, lui aveva cose ben più importanti per la testa certo gli piaceva questo sì non solo la faccia e il corpo ma tutto anche il modo di parlare quegli affioramenti di dialetto milanese, come si muoveva e camminava, averla accanto in auto gli piaceva mica che oggi ci facesse una straordinaria figura lei era proprio conciata pallida e tirata pareva fino brutta no proprio la sua vicinanza gli piaceva e l'essere salita in macchina con lui dopo tutto era una prova di confidenza, se ne sentiva in fondo lusingato, ridicolo fin che si vuole ma era proprio così: lusingato come per la degnazione di una più in alto di lui, del resto questa creatura per il momento era seduta accanto, nell'automobile, per quel fuggevole momento, se non era sua, non era però di nessun altro, fra poco, fra tre ore, questa sera, sì, sarebbe stata nuda, abbracciata e stretta e posseduta da un altro corpo di maschio, giovane, virile e muscoloso forse, ma per adesso no, per il breve tragitto che restava. E lui pensava ma non diceva niente.
E lei pensava, si capiva benissimo che pensava a qualcosa non riguardante lui Antonio, pensava a chissà quali pasticci per rimediare un po' di soldi.
Fino a che la tregua cessò e, fermatasi la macchina nella galleria delle carrozze alla stazione centrale di Milano, lei discese, sperduta e tesa, cercando con gli occhi un facchino che le portasse le valige.
Poi si volse: "Dammi il tuo indirizzo".
"Perché?"
"Ti manderò una cartolina".
Tassì urgevano alle spalle, strepitando. Lui ripartì, la intravide un'ultima volta, di schiena, che entrava nella biglietteria col suo passo fermo sicuro e disdegnoso di ballerina. Ma partiva veramente?
Dino Buzzati | Vecchia auto |
Dino Buzzati | Un amore | Capitolo IX |