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Dino Buzzati | Un amore, 1963 | Capitolo III

Dino Buzzati | Piazza del Duomo di Milano

Nel salotto, per così dire, c'era un divano ad angolo, un tavolo rotondo, un altro divano lungo, un armadietto, un armadio a muro.
Mobili cosiddetti moderni, tipo Svezia, abbastanza semplici, un vago senso di pulizia. Stupiva la presenza, sui muri, di due grandi riproduzioni di Bruegel il Vecchio: le famose scene di contadini.
Chissà come erano capitate là, o erano state scelte.
Era là seduta sul divano lungo. Lui ne ebbe al primo sguardo un'impressione gradevole però niente di straordinario.
Un faccino pallido, reso arguto dal naso dritto e prominente, dalla bocca piccola, dagli occhi tondi e attoniti. C'era qualcosa di fresco, di popolaresco, ma non volgare.

Guardò, cercando di misurare il piacere che ne sarebbe presto seguito. Si accorse che l'ovale del volto era bellissimo, puro, benché non avesse niente di classico.
Ma soprattutto colpivano i capelli neri, lunghi, sciolti giù per le spalle. La bocca formava, muovendosi, delle graziose pieghe. Una bambina.
La bocca aveva labbra sottili ma rilevate non apertamente sensuali, però maliziose. Il labbro inferiore, relativamente, sporgeva un poco, tanto più che il mento era piccolo, stretto e di profilo rientrante.
Non aveva rossetto.
La bocca era ferma e tesa, molto piccola in proporzione alla faccia, ma importante. Tutta la faccia era compatta per la tensione estrema della giovinezza. Era una faccia decisa, spiritosa, ingenua, furba, pulita, provocante. Lui si ricordò di una Madonna di Antonello da Messina. Il taglio del volto e la bocca erano identici. La Madonna aveva più dolcezza, certo. Ma lo stesso stampo netto e genuino.
In questi approcci Dorigo era sempre imbarazzato. Il giudizio segreto di lei lo atterriva. Sapeva di non essere bello. Anzi. La sua faccia gli aveva sempre procurato dispiacere. Ancora da ragazzino, passando davanti alle vetrine dei negozi, gli capitava di guardarsi, trovando sul vetro la propria immagine. Ogni volta era una umiliazione. Che faccia odiosa, che faccia da cretino, a che donna sarebbe mai potuto piacere?

- "Come si chiama?" Da principio non riusciva a far meno del "lei" benché capisse la stupidità della finzione.
- "Laide".
- "Laide? che nome curioso".
- "Laide, diminutivo di Adelaide, no?"

Ecco lui, Dorigo, era seduto sul divano, aveva acceso una sigaretta e intimidito come al solito per la presenza nuova osservava la ragazzina che stava per essergli venduta. Fra pochi minuti quella creatura fresca e graziosa, di cui aveva sempre ignorato l'esistenza, che aveva dietro a sé una famiglia, un'infanzia, una giovinezza, un mondo intero popolato da una infinità di personaggi, fatto di un tessuto complicatissimo di ricordi, di abitudini, di conoscenze, di speranze, di particolarità fisiche, di giorni lieti e di ore tristi, a lui completamente ignoti, quella creatura tanto più giovane di lui, fra pochi minuti egli la avrebbe avuta nuda fra le braccia, distesa sul letto, e anche lui nudo.
E tutto sarebbe stato come se loro due fossero marito e moglie, o si fossero prima lungamente amati o frequentati, o per lo meno ci fosse stata una preparazione logica di conoscenza, di inviti, di promesse, di lusinghe, di inganni, forse. E invece non si erano mai visti, lui non sapeva niente di lei e viceversa, eppure fra pochi minuti lei avrebbe accolto in sé la sua carne. Per quanto Dorigo non fosse più un bambino, tutto questo gli riusciva inverosimile e in certo senso spaventoso.
Ma nei casini d'una volta, che Antonio aveva volentieri frequentato, non succedeva lo stesso? No, Dorigo non riusciva a spiegarselo bene, ma era una cosa diversa.
Forse per la sanzione legale che faceva di quelle donne una categoria a parte, quasi come una milizia o un ordine religioso. Consideriamo forse uomini come noi i carabinieri o i preti? Migliori forse, ma appartenenti a un altro mondo. Consideriamo donne le suore? No. Sante creature, però di un'altra razza. Altrettanto per le donne di casino.

Potevano essere giovanissime e di bellezza meravigliosa, il fatto non era raro, tuttavia si aveva la sensazione che tra loro e noi ci fosse una barriera invalicabile: tanto possono l'abitudine, i pregiudizi e l'autorità della legge.
Forse era anche perché le ragazze dei postriboli si presentavano pressoché nude, in ridicole, ampollose e retoriche vesti in genere di orribile gusto, che lasciavano scoperti gambe e seni.
Per cui ogni incognita era abolita in partenza. Una uniforme vera e propria che non aveva nulla a che fare con gli abiti da sera, pur simulandone l'aspetto. E anche questo contribuiva a farne una categoria a sé, completamente separata dal restante genere umano.
Forse era anche perché, loro stesse, le ragazze delle case chiuse, non facevano nulla per sembrare ragazze come tutte le altre. Recitavano la parte senza alcuna concessione sentimentale. Gentili sì, spesso, magari anche affettuose, ma una ermetica barriera le separava dal cliente. Fra i due - salvo eccezioni in cui si rompeva il burocratico incanto, e allora erano guai - non c'era che un rapporto corporale.
Ogni altro interesse restava escluso. Se l'uomo, incuriosito chiedeva notizie sulla sua vita privata, non ne aveva che vaghe e convenzionali informazioni.
In quanto a lei, era buona regola che non fosse curiosa: chi era cliente? che mestiere faceva? aveva famiglia? era ricco?
Queste notizie, così importanti in qualsiasi normale relazione amorosa, non facevano parte del gioco. E tutti e due stavano alla norma, e non facevano niente per violarla. Oltre a tutto, questo reciproco disinteresse facilitava la cosa e la rendeva meno impegnativa.
Con queste ragazze invece, che si vendevano tali e quali come quelle ma in circostanze, ambiente e modi completamente diversi, era una tutt'altra situazione. Esse non differivano per nulla da quelle della vita normale per il semplice motivo che vi appartenevano.
Esteriormente non avevano nulla di diverso dalle donne che l'uomo per bene frequenta abitualmente, a casa e fuori. Il medesimo aspetto, le medesime abitudini, spesso il medesimo linguaggio.
Loro stesse avevano spesso padri, fratelli e fidanzati che non differivano per nulla dai clienti. Non c'era barriera di separazione, non appartenevano a un'altra razza, magari la sera prima erano state ospiti di un'ottima famiglia che lui stesso frequentava abitualmente.
Perciò la prostituzione assumeva qui un aspetto conturbante, in certo senso illogico e di ben maggiore attrazione. Perciò ogni volta Antonio aveva la sensazione di varcare un confine vietato; le regole entro cui era sempre vissuto, per le quali la donna era un frutto proibito da conquistare con lunghissime e spesso vane fatiche, miracolosamente si rompevano, per compiacere alla sua lussuria. Certo, queste ragazzine squillo erano delle rozze principianti al paragone delle esperte professioniste, rotte alle più depravate fantasie. In compenso, però c'era il mistero.

Dino Buzzati | Autoritratto


Dino Buzzati | Un amore, 1963 | Capitolo II
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