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Dino Buzzati | Un amore, 1963 | Capitolo VI


Chi era?
Dove andava?
Con quali speranze?
Perché faceva quella vita?
Una ragazzina così fresca, viva, autentica. Se fosse nata in una famiglia come quella di lui, Antonio, sarebbe mai venuta lì dalla Ermelina?
Che sbagliata infanzia c'era alle sue spalle?

Oppure era soltanto smania di libertà, e di ribellione, desiderio di vestiti, gusto rabbioso di umiliarsi, buttarsi via, vendersi, abbandonare il corpo alle voglie anonime, voluttà di precipitare?

Mentre si rivestiva, in quel particolare stato d'animo, sereno e malinconico che segue lo sfogo dei sensi, Antonio scostò la tendina di mussola che riparava la finestra.
E vide fuori.

Non credeva di essere così in alto. Di fronte c'era una casa della medesima statura e forse più. Ma a destra di questa casa si apriva un varco per cui lo sguardo spaziava su una sterminata prospettiva di terrazze e di tetti. Di tetti soprattutto, neri, gremiti di comignoli, laggiù.
Laggiù era la Milano da cui veniva Laide.
Le case dei ballatoi col tanfo di gatto, coi vasi fioriti di maggio e le mutande appese e la voce della giovane che canta con abbandono e la lite orrenda fra lui e lei con parole che ripetere sarebbe vergogna, il sole batte sul giardino nobiliare riscaldando un poco le mura giallastre della casa con gli stemmi, chiama lo straccivendolo al mattino che si avvicina a poco a poco e poi è qui di sotto e mentre si pensa è già lontano, il cigolio del tram alla curva, ogni volta gli occhi del ragioniere puntano sibilando sulla nuca dell'impiegatina quindicenne, i pozzi condominiali dei cortili lucidi di pioggia, neri, vitrei, col giradischi al settimo piano che abbandonato fa taa-taa-taa perché lei è rovesciata sul divano e lui la tiene ed ansima, ore undici e mezzo del mattino al termine del mercato dei grani verrà il signor Marsigliani da Borgotaro aveva detto una maschietta bionda per favore, il camioncino scarica i pacchi di bobine, stavolta il boss è nero, Dio solo sa dove collocare questo grisbi, basta tu voglia cara cosa fai?la cameriera? ecco il mio numero se credi, ma una cosa guarda: la pulizia mi raccomando non importano i profumi ma il sapone e il dentifricio sì, quei tipi che ciondolano nel sottopassaggio Carminati lo sai che mancano dell'ombra? la porta cigolò no mamma sono stata dalla Nora a sentir dischi e parla e parla ho fatto tardi, tremila per sera più la venditi dei fiori più gli incerti mi capisci, non farai qui da me la schizzinosa, tutto sta ad agganciarli certi vecchietti che se li scuoti fanno din din da tanto sono pieni di marenghi la Milka ne ha pelato uno quest'autunno ch'era uno spettacolo da tanto ributtante ma ci ha rimediato la mezza pelliccia di visone l'hai vista no?

Quel ronzio dell'ascensore su e giù, lui le prende il mento fra due dita lo scuote con rabbia sei sette volte e poi la tiene e poi la scuote ancora lei lo guarda spaventata e adesso poche storie bellezza tu mi sganci venti deca uno sull'altro e se ti provi un'altra volta ti faremo sistemare che conciata così non farai più neanche una marchetta da cento, chiaro? e poi giù quella sberla che sa dare lui che una si sente scoppiare la faccia e slam va a terra che se poi sbatte malamente tanto meglio così impara e certe volte se lui gli gira anche la cinghia dei pantaloni sul sedere bisogna poi vedere che segni da non poter lavorare per una settimana e anche le cosce, l'autista dell'ingegner Kasparri tutte le sere si cambia ma chi gli dà i soldi per il "night"? brutto che sembra un gorilla però dicono che lei la signora Kasparri la quale pare un angelo una Madonnina poi di notte impazzisce di gelosia sapendo che lui intanto sta a sbevazzar champagne con le troie ma non riesce a farne a meno è come una malattia, nell'ufficio della SNADL al buio il telefono a quest'ora il telefono e insiste per sei sette volte se ne è accorto tutto l'immenso casamento un suono veramente disperato fin verso le tre e mezzo, sarà una settimana che lui si è accorto, c'è uno scoperto di tredici milioni ma nella fossa della stazione di servizio quello che vede passare sopra di sé il ventre, l'inguine e le vergogne delle seicento e delle millecento sempre le stesse con le loro immonde incrostazioni e non vede mai l'ora dello stacco e fra ruota e ruota sbircia l'orologio le sei meno un quarto le sei meno dieci, anche nel rialzato dell'ufficio della TETRAM uno squillo di telefono, no no assolutamente il torrido impassibile ghignando con la sigaretta: per meno di tre no no e poi no, ti ho mandato apposta, tu adesso non farmi pentire con tutte quelle spese che abbiamo fatto per te e intanto pensa alle calze nere sul polpaccio di una certa sgarzolina come l'ha vista una stretta all'inguine ma è assurdo lui ha moglie e figli, e i tacchi i tacchi quel rumore sguaiato di tacchi giù per le scale con dentro tutto il peso delle anche abbandonate alla gravità carnale, presto Ines c'è un signore che ti aspetta, che signore?

Lo sai da te, lo conosci, è il solito che viene a quest'ora, non farti pregare, fagli sputare l'anima, lo sai, dalla ringhiera del sesto piano lei sporta in fuori con gli occhi fuori il ventre fuori ad aspettare lui che non viene, nel mezzanino finalmente la luce dell'alba e forse il cielo è grande e azzurro ma forse ci sono delle nubi oppure c'è la maledetta faccenda dell'alba, del momento che il sole viene su ma la città non lo conosce non lo conosce mai, le case livide e addormentate e chiuse e i pochi, pochissimi, che ancora sono vivi sentono qualche cosa di pressoché divino per un attimo, solo un momento perché dopo c'è il sonno, quel peso alla testa, il pensiero dell'orario, luce dell'alba livida e svogliata nella grande città ma è poi grande? è ridicola, nel mondo ce ne sono a centinaia di più grandi, all'ammezzato la luce filtrando appunto fra gli interstizi, ciò che dimostra la serietà, la ragazzina nuda vede l'uomo che l'ha comperata per quella notte, lo vede sazio e addormentato la bocca socchiusa simile ai tombini delle fogne o anche ai lumi tremolanti all'altare dell'Addolorata dove genuflessa al gelo dell'alba lei stessa stamane col velo nero sul capo, lei, lei stessa, possibile?, pregava, le lacrime agli occhi, pregava per il suo amore, per il suo domani, per la sua casa, un prete ciondolava nella navata, sornione, sogguardandola compatibilmente con la dignità ecclesiastica, quell'odore di incenso, quel senso delle case intorno una attaccata all'altra, verticalmente rigide, grigie, sature di vite umane, sipari tremendi uno sull'altro asserragliati stipati intorno alla piccola chiesa ottocentesca dai muri neri scolanti, le ginocchia facevano male lei si sentiva pura nonostante la notte che aveva passato in balia di uno sconosciuto pagante anzi proprio a motivo di questo per il sacrificio personale che la prostituzione comportava, la mamma a casa ammalata forse di un male orrendo quei dolori nelle parti basse tutte le sere tutte le sere e intorno i profili a picco neri delle mura con quel riflesso che mandavano su di lei con quel velo d'ombra, un delicato lume viola sul quadrante del cruscotto della supersport mentre lui una mano sulla coscia di lei, così, distrattamente, come assaggio della merce e intanto discorsi idioti la sai quella del bambino che parlava grasso? dunque c'era un bambino che entra nel salotto e là c'era la mamma con un sacco di amiche e lui dice, a momenti nel fare la curva da bullo si andava a incocciare con un taxi poi via in terza fortissimo, è anche bella questa sensazione di forza meccanica, chissà che cosa ha questo tipo purché non abbia l'alito cattivo, sentì la calza sinistra disfarsi sopra il ginocchio, un'improvvisa scorlera maledizione con quello che costano, il signor Colonnello del piano di sopra in pensione col suo cagnolino bastardo che la guarda quando la incontra sulle scale come la guarda, se sapesse, Dio mio se sapesse, certo i tacchi alti donano si fa fatica però i polpacci come risaltano, gli sguardi dei maschi si attaccano come filamenti, lei se li sente come ragnatele attaccate, quei porci, a scuola suor Celeste le diceva sempre basta specchiarti nei vetri delle finestre è peccato, così diceva era inverno di là dalle finestre il viale completamente coperto di neve silenzioso come non mai e i lampioni uno dopo l'altro a perdita d'occhio, ma questa notte rare le automobili mentre nelle vecchie scale corrose le lampadine le fioche e povere a ogni piano, al terzo anzi si è bruciata, e ne viene quella luce che racconta tante cose terribili, Dio, Dio, i muri tenebrosi, la pozzanghera, la misteriosa automobile ferma, il laboratorio incomprensibile all'interrato dove entrano ed escono certi tipi, il laido studio fotografico al primo piano che non si capisce come vive, il groviglio fantastico dei camini sul tetto, la perdizione dei cavedi che si inabissano, la solita pisciata nell'angolo, il trac trac ogni tanto nell'alloggio vicino, la lapide dove abitò il patriota delle Cinque, quel mattone che sporge, la disputa serale all'osteria nel cortiletto, tutta la densità di vite che fermentano e mai si sa mai si saprà in una specie di rombo silenzioso, già scendeva la notte i lumi qua e là ma in alto ancora tutte le case nere, enigmatici profili fumiganti di caligine lui era sul bordo di una fossa immensa e buia, di là veniva Laide da quel regno sconosciuto e una voce dentro di lui Dorigo non proprio una voce piuttosto un rintocco profondo che lo chiamava chiamava, che idiozia si disse, guardò l'orologio in quel momento proveniente dal bagno entrava Laide si è tirata su i capelli, belli tesi, in un compatto chignon certo un tipo maledetto ma senza rosso sulle labbra gli dice: "Come, non ti sei ancora vestito?".



Dino Buzzati | Un amore, 1963 | Capitolo IV
Dino Buzzati | Un amore, 1963 | Capitolo V