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Dino Buzzati | Un amore, 1963 | Capitolo IV


A questo punto la signora Ermelina chiese: "Le fa niente, dottore, se proviamo un abito?"
"S'immagini." Dorigo sapeva che la Ermelina, per mascherare il suo lavoro di ruffiana, diceva di tenere una "boutique". Nella camera da letto c'era infatti, su tutta una parete, un armadio a muro, pieno probabilmente di vestiti.
Del resto quel diversivo semplificava le ipocrite cerimonie dell'attesa. Per una convenzione di decenza, ogni volta l'andata a letto era preceduta da un quarto d'ora di chiacchiere sul più e sul meno, in tono di allegria forzata. Dopodiché, esauriti gli argomenti a portata di mano, si faceva un imbarazzato silenzio. Finché la signora Ermelina: "Su, da bravi volete andare di là?". Quando non era la stessa ragazza a prendere per mano lui, invitandolo ad alzarsi; simulazione di desiderio che aveva sempre un certo effetto.

La signora Ermelina portò un vestito di grossa maglia di lana, colore caffelatte. "Questo sì tiene caldo".
Senza la più lontana ombra di imbarazzo, Laide si sfilò il pullover grigio e la gonna pieghettata a disegno scozzese.
Rimase in sottoveste nera. Antonio notò le gambe. Erano snelle, forti, sode, i polpacci sviluppati ma ancora da bimba, senza quel blocco di muscoli sporgenti che hanno quasi tutte le ballerine.
Lo colpì anche la rotondità compatta delle braccia, così rara. In cui c'erano un naturale vigore popolaresco e insieme una innocenza infantile. Mentre lei le sollevava per infilarsi dalla testa il vestito, egli vide che le ascelle non erano rase: strano, in una ballerina.

"Sembra fatto su misura" disse la signora Ermelina. Senza parlare Laide si avvicinò a uno specchio appeso a una parete. E alzando le braccia si sistemò i lunghi capelli, rimasti impigliati nel vestito.
Mentre teneva le braccia così alzate, e gli voltava la schiena, girò la testa, guardando Antonio, con un piccolo sorriso malizioso. Si rendeva forse conto di essere, in quella posa, molto bella? Se n'era accorta da sola, con la fulminea intuizione delle donne, esaminandosi allo specchio? O qualcuno glielo aveva insegnato?
Così girato, il volto si presentava di fronte, nel suo taglio genuino, con una proterva sicurezza di sé, come a dire: mi vedi? vero che sono diversa dalle altre? vero che ti piaccio? Però senza civetteria lasciva. Le bambine fanno così, guardando la mamma, il papà, i fratelli, quando le vestono per la prima comunione.

Ma in quel preciso momento ci fu nelle profondità di lui uno scatto, una specie di misterioso rintocco, come quando in una grande solitaria campagna si sente una voce lontanissima che chiama. Egli certo non poteva assolutamente capire cosa stava accadendo in quell'attimo, non poteva sospettarne l'importanza. All'improvviso, in uno di quei baleni per cui di colpo si rivelano le oscure impronte dei giorni perduti, si ricordò di avere già vista quella ragazza.
Esisteva in corso Garibaldi, a Milano, un gruppo di vecchissime case addossate le une alle altre in un groviglio di muri, di balconi, di tetti, di comignoli. Dove lo spirito della città antica, non quella dei signori ma quella dei poveri, sopravviveva con una singolare potenza. Pezzo a pezzo, la vecchia Milano era stata distrutta.
Risparmiati soltanto i solenni palazzi, simili, in fondo, ai palazzi di tutte le altre città di ogni paese: esprimendo, non importa in che stile, gli orgogli e le vanità della medesima specie umana. Mentre è proprio nelle abitazioni dei poveri diavoli che viene fuori l'animo genuino del popolo. Ma i bestiali non capiscono queste cose e con il peso dei miliardi spianano i sozzi e polverosi quartieri dei millenni a scopo di lucro.

In corso Garibaldi però durava ancora ostinata, pur sbrecciata ai margini dal piccone, un'isola ancora intatta. E fra il numero 72 e il 74 c'era un passaggio sormontato da un arco, una specie di porta che immetteva in uno stretto e breve vicolo. C'era anzi una targa in pietra su cui era scritto: Vicolo del Fossetto.
E' così angusto l'ingresso della minuscola strada che la maggioranza dei passanti non se n'accorge nemmeno. Ma, dopo otto nove metri, il vicolo si allarga in una specie di piazzetta contornata da edifici decrepiti. E' un angolo dimenticato, un labirinto di viuzze, anditi, sottopassaggi, piazzuole, scale e scalette dove si annida ancora una densa vita. Lo chiamano chissà perché, la Storta.
Chi ci vive? Che cosa vi succede di notte? E' un ghetto di miserabili? E' un covo della malavita o del vizio? I budelli che intersecano quel viluppo di case in genere non portano nome. La luce, di sera, viene soltanto dalle stranite lampadine giallastre che illuminano fiocamente gli androni d'ingresso. Suoni di radio, richiami, echi d'alterchi, un cane che abbaia. E poi il silenzio.
Qualche mese prima, doveva essere settembre o ottobre, una sera che già erano accese le luci, lui, Antonio passava a piedi appunto per corso Garibaldi di ritorno dal suo studio, per tornarsene a casa, in piazza Castello. Passato il largo della Foppa, verso il centro, la strada assume una grande intensità di Milano. Le case per lo più vecchie o vecchissime, da una parte e dall'altra. I negozi uno dopo l'altro. Anditi bui che si ingolfano verso tetri e strani cortili. Ma i marciapiedi formicolano di gente e non è quel fermento incomprensibile, squallido e quasi disperato che alla sera si espande per esempio in certi quartieri di Napoli, è una animazione piena di vita, popolaresca, gaia, non miseria, attesa e abbandono, fretta se mai, preoccupazione di non arrivare in tempo. E le facce - sarà magari un'impressione - sembrano meno tirate, ansiose e atone che in tante altre contrade della città, anche più centrali, ricche e moderne.
A un tratto Antonio si accorse che dinanzi a lui camminava una ragazza. Indossava un abito color lillà-cenere con profilature bianche, di tessuto a "pied-de-poule", un corpetto tipo bolero della stessa stoffa, molto stretto in vita, la sottana gonfia e corta, comesi usava. Il braccio destro teso in giù a sostenere una grossa borsa di pelle, camminava a passi decisi, imperiosi, quasi arroganti, senza muovere le anche, con un portamento bellissimo e orgoglioso di sé, facendo battere, con un autoritario a piombo, i tacchi alti e sottili.
Nel moto le giovanissime gambe avevano un rapido guizzo interno, dalla caviglia, su per la svasatura dei polpacci, e oltre, lungo la emozionante progressione muscolare che si perdeva nella gonna.
Come quasi tutte le donne, sebbene l'illuminazione interna impedisse un nitido riflesso, la ragazza volgeva spesso la faccia alle vetrine, a specchiarsi. Ma rapidamente, senza una precisa intenzione; come per una abitudine divenuta istinto. Antonio così poteva intravedere il tipo.
Lo scorcio della guancia disegnato senza un pentimento, il naso diritto e sporgente con espressione curiosa, i capelli lunghi e nerissimi tesi all'indietro e raccolti in un compatto chignon. La bocca non riusciva a vederla, ma la poteva prevedere data la linea affilata del mento. Doveva essere piccola, ferma e presuntuosa.
Una ragazzina del popolo, una di quelle personalità fisiche definite fino in fondo, non vistose, di cui ci si accorge a poco a poco, scoprendovi una assoluta eleganza naturale. Avrà avuto diciott'anni. A parte i fuggevoli sguardi alle vetrine, procedeva tenendo la testa dritta e ferma, come se guardasse diritto dinanzi a sé, senza neppure vedere coloro che le venivano incontro. Antonio rallentò il passo, per poter continuare a seguirla. Dai lontani tempi di quand'era studente, non aveva mai pedinato o fermato donne per la strada, e anche allora raramente, quattro o cinque volte in tutto: non già perché non gli sarebbe piaciuto farlo, ma per una timidezza invincibile, convinto com'era che non sarebbe potuto piacere.
Le pochissime esperienze del genere fatte da ragazzo erano state del resto infelici. Proprio per quel complesso di inferiorità, Antonio, che in compagnia degli amici sapeva essere spiritoso e "degagé", nell'abbordare una donna diventava un perfetto cretino, non trovava le parole, balbettava, e la sua voce, per l'imbarazzo, prendeva un tono falso, duro, scostante. Se ne accorgeva benissimo, mentre le parole gli uscivano dalle labbra, ma era più forte di lui.

Neppure stavolta egli pensò vagamente alla possibilità di un abbordaggio. Era evidente che la ragazza apparteneva a un mondo completamente diverso dal suo. Questo moltiplicava l'interesse, ma creava anche difficoltà insormontabili. Che cosa poteva dirle? Che cosa poteva offrirle? Come avrebbe potuto attirare la sua simpatia? Certo, quel giovane fusto di commessa, o modella, o indossatrice, o puttanella - chissà che mestiere faceva - gli piaceva enormemente. C'era poi la differenza dell'età, un handicap di cui da qualche tempo sentiva dolorosamente il peso.
Niente da fare dunque. Fra poco la avrebbe vista sparire, in una casa o in un negozio, o in un tram; e non la avrebbe incontrata mai più.

Difatti la giovane si infilò nel vicolo fra il numero 72 e il numero 74. Prima di scomparire - tuttavia - lei si voltò improvvisamente a guardarsi indietro. In quel punto la luce era poca, ma Antonio poté vedere la faccia. Pallida, asciutta, infantile, gli occhi rotondi e attoniti. Gli sembrò bellissima, un tipo un po' da spagnola. Per un attimo i loro sguardi si incontrarono. Per una frazione di secondo si agganciarono l'uno all'altro. Egli avrebbe voluto salutare, o per lo meno sorridere. Non ne trovò il coraggio. L'espressione di lei, nel guardare l'uomo, era di indifferenza assoluta. Poi, col suo passo imperterrito avanzò nell'andito buio.
Andarle ancora dietro? Antonio si fermò all'imbocco del vicolo fissando la svelta silhouette che si allontanava controluce perché in fondo c'era un cortiletto o uno slargo abbastanza illuminato.
Solo dopo che la sconosciuta ragazza fu scomparsa laggiù, Antonio osò entrare anche lui. Al termine del breve budello si trovò nella minuscola piazza che si è detta. Da cui si irraggiavano fra casa e casa, altre stradicciole e cunicoli. Gli passò accanto un garzone con un vassoio pieno di paste. Una donna anziana, affacciatasi a chiudere le imposte di una finestra al piano rialzato, guardò Antonio con curiosità. Anche tre bambini che stavano giocando alle biglie sotto un lampione, si voltarono ad osservarlo. Dall'intrico delle case intorno, tutte a ballatoi paralleli, venivano voci, rumori e suoni. Si sentiva un martello battere su qualcosa di metallico. Un odore di zuppa con aglio, appetitosissima.

Era come un piccolo paese incistato fra lo schieramento delle case. Un pezzo di Milano imprevedibile, di cui non aveva mai sentito parlare. A parte le luci elettriche, e una Vespa lasciata dinanzi a una porta, tutto era come un secolo, due secoli prima.
Antonio avrebbe voluto esplorare i vicoli circostanti; fin dove si estendeva quella cittadella segreta? C'erano altre piazzette? Si poteva uscire dall'altra parte, in via Statuto o in via Palermo?
Avrebbe potuto anche incontrare di nuovo la ragazza.
Ma fu vigliacco come al solito. Si sentiva straniero. In fin dei conti si trovava in casa d'altri. Anche l'angusta piazza doveva essere proprietà privata. Se qualcuno gli avesse chiesto perché era entrato, che cosa avrebbe potuto rispondere?
Se ne andò, accendendo una sigaretta, rassegnato. Chissà dove la piccola spagnola era andata a ficcarsi! Abitava forse lì? O era andata a trovare un'amica? O era andata a un convegno? Non la avrebbe incontrata mai più.
Eppure, per una di quelle intuizioni dell'animo, apparentemente assurde, che magari al momento non ci si bada ma rimangono dentro, per poi ridestarsi a distanza di mesi e di anni, quando il meccanismo del destino scatterà, Antonio ebbe un presentimento: come se quell'incontro avesse importanza nella sua vita, come se il coincidere rapidissimo degli sguardi avesse stabilito fra loro due un legame che non si sarebbe spezzato mai più, a loro stessa insaputa.

Già in passato, più di una volta, aveva constatato la incredibile potenza dell'amore, capace di riannodare, con infinita sagacia e pazienza, attraverso vertiginose catene di apparenti casi, due sottilissimi fili che si erano persi nella confusione della vita, da un capo all'altro del mondo.
Ma poi i giorni, il lavoro, i viaggi, la gente. Antonio non ci aveva pensato più, la conturbante figuretta dimenticata e sepolta nei profondi sotterranei della memoria.



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