Dolci, Carlo - Figlio di Andrea e di Agnese Marinari, nacque a Firenze il 25 maggio 1616. La fonte principale per le notizie relative a questo pittore è la biografia scritta dal suo alunno Filippo Baldinucci (pubblicata postuma nel 1728).
Da questa si apprende che, rimasto orfano del padre all'età di quattro anni, entrò nella bottega di Iacopo Vignali a soli nove anni e vi restò sino al momento in cui si rese autonomo; nel 1648 fu iscritto fra gli accademici del disegno; nel 1654 sposò Teresa Bucherelli (1638/39-1683), dalla quale ebbe un maschio di nome Andrea e sette figlie femmine (Baldinucci, 1728, p. 361).
Negli "stati d'anime" della parrocchia di S. Lorenzo (Firenze, Biblioteca Laurenziana) del 1659 la famiglia è registrata con la sola Anna di due anni, nel 1660 è aggiunta Agnese che era infatti nata il 14 sett. 1659.
Elisabetta di sei anni e Agata di quattro anni sono ricordate nel taccuino di disegni di Cambridge; ancora Agata con Giovanna ed Angiola sono citate come giovani fanciulle nel testamento del 1685, mentre non si hanno notizie della settima figlia.
Il D. trascorse tutta la sua vita a Firenze tranne un periodo di pochi mesi nel quale compì, con grande riluttanza e per spirito di obbedienza, un viaggio a Innsbruck nel 1672 per ritrarre Claudia Felicita, figlia dell'arciduca Ferdinando Carlo d'Asburgo, conte del Tirolo, e di Anna de' Medici, futura moglie dell'imperatore Leopoldo I.
Negli anni tardi la tendenza all'introversione e all'isolamento del pittore si accentuò e comportò un progressivo distacco dalla pittura negli ultimi tempi prima della morte avvenuta a Firenze il 17 genn. 1686.
Fu sepolto nella tomba di famiglia alla Ss. Annunziata, preceduto dalla madre (1669) e dalla moglie, 1683.
La vita del pittore, così povera di fatti significativi, fu dedicata alle pratiche devote e alla produzione di opere religiose, considerando egli la sua arte come lo strumento concessogli da Dio per servirlo degnamente.
Il D. fu certamente un talento precoce; il Baldinucci afferma (1728, p. 338) che cominciò a dipingere poco dopo essere entrato nella bottega di Vignali.
Prime testimonianze certe dell'attività del D. sono due ritratti, genere nel quale si cimentò anche in seguito e con notevoli risultati.
Nel 1631 realizzò per don Lorenzo de' Medici il ritratto di Stefano della Bella (Firenze, Galleria Palatina), precocissimo capolavoro (Borea, 1977, p. 42) non solo per la raffinata esecuzione ma anche per l'indagine psicologica che lo sostanzia.
L'anno successivo eseguì il ritratto di Fra' Ainolfo de' Bardi (Firenze, Uffizi): qui il taglio della figura sino al ginocchio e l'ambientazione all'aperto sono elementi originali che si unisconoad una gamma cromatica già molto sofisticata.
L'aver ricevuto questo incarico a soli sedici anni, da un uomo importante della cerchia medicea, è inoltre segno del precoce successo del pittore (McCorquodale, 1973, p. 480) e il dipinto è sempre stato considerato fra le opere più rappresentative della ritrattistica dell'inizio del Seicento.
A queste prime, e più sicure, opere McCorquodale, ha aggiunto un S. Francesco che contempla il Crocifisso (già a Londra, coll. Waddingham), datandolo 1627-30 circa per lo stile fortemente vignalesco.
Nel quarto decennio avanzato si precisa meglio il modo tipico di dipingere del D. con una materia "compatta e lucida" quale già si avverte nel S. Giovanni Battista dell'Arciconfraternita della Misericordia; appartengono a questo momento anche il S. Giovanni nel deserto (coll. privata; McCorquodale, 1986, I, p. 43 8), ancora fortemente legato ai modi del maestro, ed il notevole Angelo custode di Budapest.
Infine il McCorquodale (1986, p. 82) ritiene fra le opere principali degli anni Trenta i tre Evangelisti (Malibu, P. Getty Mus., Los Angeles, coll. priv.; coll. priv. in Italia) della serie forse dipinta per G. Galli, pubblicati da B. Fredericksen (1976).
Una precoce testimonianza dei contatti del D. con la famiglia medicea, avviati sin dai primi anni di attività, è secondo Russell (1985, p. 716) l'Adorazione dei magi di Blenheim (coll. duca di Marlborough).
La "materia incorruttibile", propria dei dipinti del D., si afferma prepotentemente in opere dei primi anni Quaranta come il ritratto di Serafina Pezzuoli e la famosissima Madonna col Bambino del Museo Fabre di Montpellier, datata 1642.
Sono qui osservabili molti dei caratteri tipici del D.: l'assorta e affettuosa dolcezza del viso di tante Madonne, l'intatta materia degli incarnati, la nitida messa a fuoco di ogni dettaglio compreso il brano di natura morta dei fiori nel canestrino, la luminosa gamma cromatica non ancora gravata dalle ombre avvolgenti della fase più tarda.
Della Madonna si conoscono numerose altre redazioni, a testimonianza della fortuna che subito riscosse, essendo abitudine del pittore replicare le sue opere migliori (cfr. Levey, 1971; McCorquodale, 1973, fig. 3).
Cronologicamente prossimo alla Madonna di Montpellier è lo stendardo dipinto nel 1641 per la Compagnia di S. Filippo Benizi rappresentante il santo titolare, del quale si conoscono le traversie di pagamento (M. Cioni, Appunti d'archivio. Di uno stendardo dipinto dal D., in Rivista d'arte, VII [1910], pp. 143 ss.), e che McCorquodale (1979, p. 145 fig. 6) ritiene di aver rintracciato seppur ridotto nelle dimensioni (ma cfr. anche O. J. Dias, S. Filippo Benizi e s. Pellegrino Laziosi, in Studi storici dell'Ordine dei servi di Maria, XXXV [1985], pp. 251-55). Fra i rari dipinti con più figure il D. realizzò negli anni Quaranta tre versioni del Martirio di s. Andrea (Birmingham, Art Gallery, dat. 1643; Firenze, Galleria Palatina, dat. 1646; Empoli, prepositura, secondo Chiarini, 1978, di poco precedente le altre due versioni).
Il quadro di Birminghani è un curioso insieme di ritratti di contemporanei del pittore e di citazioni da dipinti famosi, come è stato accertato da McCorquodale (Painting, 1979, p. 64).
Le riprese da maestri fiorentini famosi o dal Correggio sono tutt'altro che infrequenti nel D. come ha sottolineato Del Bravo (1963, p. 33), mentre Pizzonisso (1986) ha notato un possibile riferimento del D. ai modelli della tradizione robbiana nell'ambito di un gusto di carattere arcaicizzante. Ma non mancano riprese dalla tradizione fiorentina più prossima come mostra il quadro raffigurante Cristo in casa del Fariseo (Corsham Court, coll. lord Methuen, dat. 1649; modello a Stoccolma, Museo nazionale), che riprende un dipinto di L. Cardi detto il Cigoli del 1596 tramite una stampa di Cornelius Galle. Anche in questo dipinto, di cui si conoscono alcuni disegni preparatori, il D. ha inserito certamente qualche ritratto (McCorquodale, Painting, 1979, p. 46).
Il ricorso a modelli di altri pittori, compiuto in modo manifesto e senza intenzioni di plagio, testimonia la difficoltà del D. ad elaborare composizioni articolate, difficoltà che si avverte nel corso di tutta la sua produzione.
È stato infatti osservato che il D. sembra progettare figure isolate e poi raccoglierle insieme (Heinz, 1960, p. 198) e che non sono noti suoi disegni di composizione ma solo studi di singole figure (McCorquodale, 1973, p. 484).
La vera abilità del pittore non si esplica infatti nella composizione ma nella meticolosa realizzazione di ogni singola figura, curata sin nei minimi dettagli, secondo quella che il Baldinucci definisce "diligenza pratica paziente" (1728, p. 336) da non confondersi con l'incertezza e tanto meno l'incapacità.
Proprio per una migliore valutazione dei grandi dipinti sacri del D. sarebbe stato necessario il perduto quadro, realizzato nel 1656 per Giovanni del Nobolo, raffigurante La Madonna mostra la miracolosa immagine di s. Domenico a Soriano (già nella chiesa di S. Andrea a Cennano a Montevarchi), del quale il McCorquodale ha potuto ricostruire la storia e pubblicare un frammento con la Vergine, che colpisce per la qualità illusiva della corona dipinta sulla testa; a quest'opera pertanto si possono applicare le parole del Baldinucci per la famosa copia della Ss. Annunziata: "che, per molto che si toccasse e ritoccasse la tela per assicurarsi che elle [gioie] fosser dipinte, pareva tuttavia che l'occhio ne rimanesse in dubbio: ma forzato finalmente ad approvare il giudizio della mano, vergognoso del proprio inganno ... si gettava agli atti della maraviglia ...".
La produzione degli anni centrali dell'attività del D. è meglio rappresentata da piccoli quadri di soggetto devoto come il S. Girolamo penitente (dat. 1647, McCorquodale, Some unpublished, 1979, p. 145, fig. 8), la Fuga in Egitto (Stamford, coll. marchese di Exeter, cfr. Waterhouse, 1960, altra versione nella coll. V. Spark di New York) e l'Angelo custode (Corsham Court, coll. lord Methuen), gli ultimi due databili attorno al 1650 circa, che sono espressione di uno stile che è stato definito come naturalismo poetico (McCorquodale, Painting..., 1979, pp. 47 s., 52) ma che tenderà ad essere sopraffatto negli anni successivi da una accentuazione pietistica.
Sono degli anni Quaranta anche il Cristo al Limbo, proveniente dalla Compagnia di S. Benedetto Bianco a Firenze, dai modi velatamente neoquattrocenteschi, così come la Trinità del Rhode Island School of design Museum a Providence (cfr. McCorquodale, 1986, I, p. 441).
Si possono ancora ricordare il S. Paolo eremita nutrito dal corvo della collezione Kress (Shapley, 1973) e il S. Domenico Penitente (Firenze, Galleria Palatina, del 1651 circa: Heinz, 1960, p. 224) dagli accentuati contrasti chiaroscurali, il S. Pietro in lacrime (Firenze, Galleria Palatina, dat. c. 1654) e la Carità di palazzo Alberti a Prato, datata 1659.
Quest'opera è altamente rappresentativa dello stile maturo del D. per la concentrazione dell'immagine e l'accentuazione estatica dell'espressione. Questo tipo di figure allegoriche, prevalentemente a sfondo morale-religioso, è una delle poche alternative che il D. si concesse rispetto alla produzione di immagini sacre. Possono essere ricordate fra le più famose la Poesia (Firenze, Galleria Corsini, 1648-49), la Pazienza (dat. 1677; Gregori, 1974, fig. 24) e la Sincerità di Vienna che addirittura presenta una ripresa identica del braccio destro della Carità (McCorquodale, 1986, I, pp. 442-45).
Un'analoga, estrema semplificazione del soggetto, associata alla illusiva tangibilità dei dettagli, è ravvisabile in alcune immagini a mezzo busto della Madonna, ripetutamente riprese nell'iconografia devozionale (cfr. l'Addolorata, in McCorquodale, 1986, I, p. 446).
Negli anni Sessanta il D. realizzò alcuni fra i suoi più famosi ritratti, tra cui si segnalano le obiettive raffigurazioni del Fitzwilliam Museum di Canibridge (c. 1665-70), Sir John Finch e Sir Thomas Baines, soprattutto il secondo notevole per l'attenta indagine psicologica del personaggio.
Il Baldinucci ricorda (1728, p. 352) che dopo questa coppia di ritratti il D. ne fece molti altri per cavalieri inglesi di passaggio a Firenze (per l'attività ritrattistica del D. cfr. anche McCorquodale, 1976).
La sua pittura fu quindi conosciuta ed apprezzata in Gran Bretagna, dove i numerosi quadri portati da sir John Finch contribuirono notevolmente al successo del D. (per la ricostruzione delle vicende dei dipinti Salomè con la testa di Battista e David con la testa di Golia, cfr. McCorquodale, 1977).
Negli ultimi venticinque anni di attività si intensificarono i soggetti a figura unica come i due ottagoni con S. Carlo Borromeo e S. Nicola da Tolentino (Firenze, Galleria Palatina; per il secondo disegno preparatorio datato 1660 a Gijón), S. Rosa (datata 1668, pal. Pitti) e S. Casimiro (1670, ibid.).
L'immagine di S. Rosa mostra come il pittore, nella sua ricerca di massima concentrazione, abbia eliminato qualsiasi movimento, condensando tutta la figura nello sguardo levato verso l'alto.
Sono di quest'epoca anche il S. Giovanni Evangelista, sempre a Pitti, del 1671, e la S. Cecilia di Dresda (Gemäldegalerie) dello stesso anno; quest'ultima è una delle immagini più felici dell'epoca per l'equilibrio sapiente che si crea fra l'analitica descrizione delle singole cose e l'atmosfera globale del quadro che ha l'intimo sapore della scena familiare.
Durante il già citato soggiorno ad Innsbruck nel 1672 il D. dipinse due ritratti di Claudia Felicita, uno a Vienna (Kunsthistorisches Museum) e l'altro portato a Firenze, dove il granduca Cosimo III gli ordinò di trasformarla in S. Galla Placidia (1675; Uffizi, cat. 1979, p. 249). Dipinse inoltre per Claudia Felicita il Gesù Bambino con fiori a figura intera (Vienna, Kunsthistorisches Museum, dat. 1674; Heinz, 1958, fig. 184).
Negli ultimi anni della sua vita il D. fu particolarmente attivo per Cosimo III e sua madre Vittoria Della Rovere. La celebre Madonna col Bambino, detta delle pietre dure, fu eseguita per la granduchessa forse nel 1675; a lei appartenne certamente il Sonno di s. Giovannino, databile al 1673, e a testimonianza di questi rapporti resta soprattutto il Ritratto di Vittoria Della Rovere in abiti vedovili, sorprendente immagine di nitido realismo (tutti a Firenze, Galleria Palatina; cfr. Ewald, 1974, pp. 218 s.).
Per la collezione del cardinale Leopoldo de' Medici eseguì inoltre l'Autoritratto del 1674 (Firenze, Galleria degli Uffizi), in cui si raffigura in vesti eleganti, mentre mostra un secondo autoritratto in cui è intento al lavoro (in questo secondo caso con gli occhiali abbassati sul naso e lo sguardo fisso su un dettaglio che sta amorosamente definendo).
Appartengono alla fase estrema della produzione del D. ancora due grandi dipinti d'altare: l'Angelo custode per il duomo di Prato del 1675 circa (ora nel Museo), che è stato definito "un episodio di vibrante intimismo e di lirismo sentimentale" (Datini, 1972), e la Madonna col Bambino e la beata Solomea appaiono a s. Luigi di Tolosa (Galleria degli Uffizi). Sul bozzetto sono segnati gli acconti percepiti dal 1676 al 1681 ma il dipinto non fu finito, anche a causa della morte del committente, il canonico Bocchineri.
Lo stile dell'ultima attività del D. si apprezza meglio nei quadri di piccolo taglio, come il Gesù Bambino con corona di fiori di Monaco del 1680 (McCorquodale, 1973, p. 486, fig. 14) e il Cristo che benedice il pane di cui sono note varie versioni fra cui quella di Dresda (c. 1676), quella di Corsham Court e quella già nella collezione Wellington (1681): il realismo allucinato esprime "il patologico fervore religioso" del pittore prossimo alla fine della sua attività (McCorquodale, 1976, p. 313).
Il Baldinucci (1728, pp. 357-60) descrive, infatti, la grande depressione e la confusione mentale che si impossessarono del D., ormai anziano, dopo l'incontro con Luca Giordano; si riacutizzò un malessere di natura psicologica, già presentatosi alcuni anni prima, che gli impedì, da allora in poi sino alla morte, di lavorare ancora.
Accanto alla produzione di quadri sacri e di ritratti il D. si dedicò talvolta anche alle nature morte (Baldinucci, 1728, p. 341); è stato identificato il Vaso di fiori e bacile (Firenze, Galleria Palatina; Gregori, 1964) dipinto per Giovanni Carlo de' Medici nel 1662, mentre l'attribuzione al D. della Allegoria dell'Epifania, avanzata da Heinz (1960, p. 208, fig. 220), è oggi contestata da McCorquodale (1986, I, p. 450).
Possono essere associati alle nature morte i due emblemi per Andrea Dolci, appartenuti a Ferdinando de' Medici, recentemente esposti a Firenze (Acanfora, 1986, pp. 458 s.). Del Bravo (1963, p. 39) ebbe a dire che per questo "poeta del raccoglimento" anche "gli oggetti divengono morbosi simboli".
La scelta del D. di dedicarsi prevalentemente a soggetti sacri è giustificata dal Baldinucci (1728, pp. 341 s.) con l'affermazione che il pittore voleva dipingere "sacre istorie, talmente rappresentative che potessero partorir frutti di cristiana pietà in chi le mirava...".
L'immagine doveva dunque commuovere sentimentalmente l'osservatore e per ottenere questo scopo le pitture dovevano essere dipinte da chi aveva fede ed i soggetti essere descritti in modo illusivo. Il D. espresse nella pittura la sua personale religiosità ma anche gli ideali religiosi del tempo, incarnando la figura del "christianus pictor" quale era stata delineata dal Paleotti (su questi problemi cfr. soprattutto Heinz, 1960).
Il D., nell'alveo di questa posizione stilistica assunta con precisa coscienza religiosa, affinò e decantò progressivamente i suoi mezzi espressivi, rinunciando ad ogni dispersione e concentrando sempre più l'immagine, sovente ridotta ad una mezza figura persino priva di movimento. In questo pittore di grande coerenza stilistica l'evoluzione espressiva avvenne dunque nel senso di una autoimposizione di vincoli sempre più limitanti per raggiungere nella concentrazione estrema di una immagine allusivamente sorprendente una più convincente esortazione alla preghiera.
Il fervore religioso che accompagna la creazione artistica è percepibile anche nelle scritte sovente apposte dal D. sul retro dei quadri: sono il ricordo del giorno in cui l'opera fu cominciata con il nome del santo venerato e brevi invocazioni religiose (cfr. ad esempio Gregori, 1986, p. 440).
Tutto questo rende naturalmente il D. molto diverso dai pittori contemporanei e la sua produzione è molto lontana dal movimento e dalla dilatazione spaziale della contemporanea pittura barocca.
L'estrema finitezza delle sue opere è stata talvolta messa in rapporto con la "diligenza" della pittura olandese, in particolare di Franz van Mieris (Del Bravo, 1963, p. 37). La predilezione per certi colori, ed in particolare per i fondi azzurro scuro, che creano una indefinibilità cronologica del momento in cui avviene l'azione, derivano invece dalla più recente tradizione fiorentina.
La semplificazione dell'immagine e nel contempo il fervore religioso che da essa emana hanno fatto delle opere del D. modelli continuamente ripresi e imitati sino a tempi recenti cosicché il fenomeno delle copie e delle rielaborazioni è stato imponente come mostra soprattutto la notissima immagine della Madonna del dito. La produzione di copie cominciò ancor vivente il pittore ad opera dei suoi allievi, fra i quali la stessa figlia Agnese, ma il corpus autografo del pittore è sempre caratterizzato da un elevato livello qualitativo (per un ampio-catalogo dell'attività del D. cfr. Cantelli, 1983). | © Maria Barbara Guerrieri Borsoi - Treccani, Enciclopedia Italiana.