Considerato uno dei pittori Vittoriani più influenti, Sir Lawrence Alma-Tadema (1836-1912) costituisce una presenza molto particolare nel panorama artistico del XIX secolo; lo stile ed i contenuti delle sue opere manifestano allo stesso tempo elementi antichi e moderni, visitati in chiave personale, tanto che l'Art Journal del 1870 scrisse su di lui: «Alma-Tadema è difficile da classificare: non appartiene a nessuna scuola, o per meglio dire, è lui stesso una scuola».
Tuttavia «Alma-Tadema», pur nella sua peculiarità, si inserisce nell'estetica ottocentesca volta al recupero del passato, con una generale ripresa di stili artistici e aspetti formali propri di epoche storicamente lontane e neoclassiciste; le innovative e originali formule neopompeiane di Alma-Tadema, dettate della sua passione per l'archeologia vesuviana, trovarono a Londra un'accoglienza più che favorevole.
Al fine di soddisfare non solo il proprio amore per l'archeologia, ma anche le stravaganze intellettuali della sua committenza vittoriana, Alma-Tadema non esitò a rifugiarsi fantasiosamente nell'ancestrale dimensione domestica di Pompei.
«Pompei è così caratteristica, interessante, triste, così poetica e incantevole che veramente non vorrei staccarmene mai. Più si conosce questo luogo e più lo si ama» disse una volta il pittore, preferendo l'antica città campana alle più magniloquenti rovine dell'antica Roma e assecondando pienamente un gusto, iniziato con la pubblicazione di Gli ultimi giorni di Pompei dell'inglese Edward Bulwer-Lytton, per il quale la civitas pompeiana era una «miniatura della civiltà del suo secolo», «un modello dell'Impero» dove si può godere «lo splendore del lusso senza il peso della sua pompa», differenziandosi dunque dall'Urbe, dove «i piaceri sono troppo solenni e pomposi».
Come osservato da Ugo Fleres nel 1883, Alma-Tadema «si slancia indietro attraverso i secoli e pianta il suo cavalletto nella vera vita pagana», quasi a voler tradurre col pennello il giudizio della letterata francese Madame de Staël, per la quale «a Roma non si trovano altro che resti di pubblici monumenti, e questi non rammentano altro che la storia politica dei secoli passati. Ma a Pompei vi è la vita privata degli antichi, che si presenta tal quale essa era».
Ecco, allora, che Alma-Tadema nella sua stagione pittorica più felice si occupò di rievocare con scrupolo encomiabile la dimensione più intima, insieme fastosa e domestica, dell'antica Pompei, dipingendo opere enciclopediche, citazioniste, che descrivono minuziosamente le scene ritratte.
Avvantaggiandosi di una conoscenza approfonditissima delle realtà archeologiche italiane, ma anche dell'ampia documentazione fotografica che circolava in Europa in quegli anni, Alma-Tadema poteva infatti avventurarsi in operazioni filologicamente avanzate, ricolmando le proprie opere non solo di oggetti romani relativi alla sfera quotidiana (tricliniares, cartibulum, trapezofori) ma anche di noti capolavori dell'arte antica (tanto a che nei suoi dipinti sono riconoscibili opere rinomate come il Laocoonte, la Matrona seduta, il Sofocle, il Fauno danzante, il mosaico della Battaglia di Isso, o la statuetta in bronzo e oro di Afrodite del museo archeologico di Napoli).
Non fu un caso, dunque, se iniziò a circolare, per riferirsi al pittore, l'appellativo di «Winckelmann della pittura moderna», o se l'italiano Francesco Netti valutò le composizioni tademiane in questi termini: «Nei suoi quadri quindi vi è un po' di tutto. Sono musei. Non vi manca nulla, dai grandi ornati di porta che sono a Napoli sino all'ultimo oggetto, o statua, o pittura, o mosaico, o vaso, o utensile scoperto a Pompei, o a Roma, o nel resto dell'Italia, o in Grecia, o in Egitto».
Va ricordato, tuttavia, che i dipinti tademiani, pur delineando (come si è già detto) la realtà pompeiana con una tecnica impeccabile, non si rapportano al soggetto con esattezza filologica, in quanto il pittore spesso si divertiva a giocare con le fonti: non «manuali archeologici illustrati», dunque, bensì scene che, in seguito a libere manipolazioni e disinvolti assemblaggi, potevano dirsi verosimili testimonianze di una favolosa epoca passata, senza per questo scadere in uno zelo documentativo eccessivo.
Dietro questo piglio archeologico e delicatamente erudito, tuttavia, si nascondeva un simbolismo estetizzante tipicamente ottocentesco. L'antica Roma di Alma-Tadema, infatti, non era quel serbatoio di esempi virtuosi ed edificanti che era stato così tante volte evocato nel corso dei secoli, bensì era un luogo popolato da figure decadenti, antieroiche, pervase da un romantico languore, e tutte dedite alla sensualità, alla piacevolezza e agli ozi conviviali.
L'interpretazione dell'antica Roma offerta dal pittore, dunque, è priva di intenti moralisti o edificanti e, anzi, tradisce un edonismo il cui scopo è quello di «raggiungere e sollecitare il piacere di tutti i sensi» (StileArte).
Quest'obiettivo viene perseguito dal pittore anche con una minuziosissima indagine della materia, restituita sulla tela con grande virtuosismo: di tutti i marmi, le stoffe, i fiori riprodotti nelle opere tademiane è possibile saggiarne la consistenza, la qualità in maniera quasi tattile.
Di seguito si riporta una citazione desunta dal sito web StileArte che afferma in proposito:
«Trasudanti caprifogli odorosi, percorsi da zefiri di tigli sconvolgenti, di mieli e altre diavolerie dolciastre, i quadri di Lawrence Alma-Tadema [...] dischiudono il tatto, potenziano l'olfatto, acutizzano l'udito nel cogliere i fruscii, accendono il preludio dell'eros. La scena d'ambientazione storica maschera abilmente il nucleo autentico dell'opera» - StileArte.
Al di là del citazionismo archeologico e di queste sollecitazioni polisensoriali i quadri di Alma-Tadema sono costellati anche di conturbanti figure muliebri dagli sguardi enigmatici e seducenti e dai corpi sensualmente ingentiliti da panneggi volatili.
Queste autentiche femme fatales, ammaliatrici ma anche angelicate, veicolavano una denuncia molto velata verso una società, come quella vittoriana, che era bigotta, ipocrita, macchiata di un'etica sessuale convulsamente austera, e incompatibile con la nuova sensibilità decadente di fine secolo.
Va da sé che questo stile, tralasciando le feroci critiche di John Ruskin (per il quale Alma-Tadema, a causa del suo disimpegno etico, era «il peggior pittore del XIX secolo»), da una parte fu calorosamente acclamato, soprattutto da quella classe alto-borghese che «ama[va] riconoscervisi, nobilitando così i propri vizi e virtù, nei riti e nei costumi di una società ormai remota ma anche riproposta nel presente grazie ai reperti archeologici le cui scoperte erano largamente pubblicizzate» (Vittoria Garibaldi).
Pensiamo, ad esempio al giudizio di Gabriele d'Annunzio, il quale - ammirando incondizionatamente l'enigmatico fascino delle donne tademiane e la raffinatezza delle sue scenografie - rilasciò il seguente commento sul Fanfulla della Domenica: «[La pittura di Alma-Tadema si può paragonare ad] un raro pezzo di argenteria qualche cosa come un gioiello carico di cesellature, un avorio scolpito e inciso, un alabastro meticolosamente traforato».
Alma Tadema influenzò profondamente il gusto neopompeiano dell'epoca ed ispirò numerosi pittori orientalisti suoi contemporanei tra cui Cesare Saccaggi. | Fonte: © Wikipedia